DISTANZE LEGALI - Vincoli di natura reale assimilabili alle servitù - Cass. civ. Sez. II Sent., 15-09-2021, n. 24940

DISTANZE LEGALI - Vincoli di natura reale assimilabili alle servitù - Cass. civ. Sez. II Sent., 15-09-2021, n. 24940

Le convenzioni tra privati, con le quali si stabiliscono reciproche limitazioni o vantaggi a favore e a carico delle rispettive proprietà individuali, specie in ordine alle modalità di edificabilità, restringono o ampliano definitivamente i poteri connessi alla proprietà attribuendo a ciascun fondo un corrispondente vantaggio e onere che ad esso inerisce come "qualitas fundi", ossia con caratteristiche di realità inquadrabili nello schema delle servitù. Nell'ipotesi, pertanto, di inosservanza della convenzione limitativa dell'edificabilità, il proprietario del fondo dominante può agire nei confronti del proprietario del fondo servente con azione di natura reale per chiedere ed ottenere la demolizione dell'opera abusiva, non diversamente dal proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni ex artt. 872 e 873 c.c.. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito secondo la quale l'inosservanza del regolamento consortile cui erano vincolate le parti del giudizio, recante limitazioni alle modalità di edificazione, consentiva al proprietario del fondo dominante di agire nei confronti di quello del fondo servente con un'azione di natura reale per ottenere la demolizione dell'opera abusiva ex art. 1079 c.c.).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria - Presidente -

Dott. GORJAN Sergio - Consigliere -

Dott. COSENTINO Antonello - Consigliere -

Dott. GIANNACCARI Rossana - Consigliere -

Dott. DONGIACOMO Giuseppe - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12434/2017 proposto da:

V.L., rappresentata e difesa dall'Avvocato RICCARDO ERNESTO DI VIZIO, e dall'Avvocato MAURIZIA VENEZIA, per procura speciale in calce al ricorso;

- ricorrente -

contro

B.L., rappresentata e difesa dall'Avvocato ANTONIO CICCARESE, e dall'Avvocato ANTONELLA CICCARESE, per procura speciale in calce al controricorso;

- controricorrente -

nonchè V.A., e V.E., quali eredi di D.C.O., nonchè C.M.C. e C.A., quali eredi di V.T., già erede di D.C.O.;

- intimati -

avverso la sentenza n. 1703/2017 della CORTE D'APPELLO DI ROMA, depositata il 14/3/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 7/7/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale della Repubblica, Dott. NARDECCHIA Giovanni Battista, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Il tribunale di Latina, con sentenza del 20/5/2010, in accoglimento della domanda proposta da B.L. con atto di citazione notificato in data 2/1/1997 nei confronti di V.L. ed D.C.O., ha condannato V.L. nonchè V.A., V.M.T. ed V.E., nella qualità di eredi di D.C.O., deceduta nelle more del giudizio, in solido, alla riduzione in pristino, mediante demolizione, della costruzione realizzata da D.C.O. su un terreno di Luisa V., censito in catasto al f. (OMISSIS), p.lla (OMISSIS), limitrofo al terreno di proprietà dell'attrice, compreso nel perimetro del Consorzio Tiberia di Sperlonga, in quanto edificata in violazione delle norme consortili e delle disposizioni amministrative in tema di edificazione degli edifici.

2. V.L. ha proposto appello avverso la sentenza del tribunale deducendo, in rito, l'improponibilità della domanda, per essere la controversia di competenza di un collegio arbitrale di tipo irrituale a norma dell'art. 17 dello statuto consortile cui tutte le parti sono vincolate, e, nel merito, l'infondatezza della domanda proposta dall'attrice, sul rilievo, innanzitutto, che il piccolo manufatto non era lesivo di alcun diritto reale della B. nè pregiudicava le disposizioni del regolamento consortile ed, inoltre, che le disposizioni riportate dall'art. 6 di tale regolamento sono dirette non al singolo consorziato ma al Consorzio al quale attribuiscono il diritto di provvedere all'esecuzione dei lavori di ripristino.

B.L. ha resistito al gravame, chiedendone il rigetto, con l'integrale conferma della sentenza appellata. V.A., V.E., nella qualità di eredi di D.C.O., nonchè C.M.C. ed C.A., quali eredi di V.T., già erede di D.C.O., sono rimasti, invece, contumaci.

3. La corte d'appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l'appello ed ha, per l'effetto, confermato la sentenza impugnata.

La corte ha ritenuto, innanzitutto, che fosse inammissibile l'eccezione di improponibilità della domanda per la sussistenza di una clausola di arbitrato irrituale. Tale eccezione, infatti, ha osservato la corte, è stata proposta per la prima volta in appello ma, trattandosi di una questione che attiene al merito, non può essere rilevata d'ufficio per cui avrebbe dovuto essere sollevata dalla parte convenuta, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dall'art. 180 c.p.c., comma 2, nel testo in vigore all'epoca dell'introduzione del giudizio. D'altra parte, ha aggiunto la corte, non assume rilievo che l'appellata avesse accettato il contraddittorio sull'istanza, chiedendone il rigetto nel merito, poichè, nel vigore delle preclusioni di cui alla L. n. 353 del 1990, la questione della novità dell'eccezione è sottratta alla disponibilità delle parti ed è pienamente ed esclusivamente ricondotta al rilievo ufficioso del giudice.

La corte, poi, ha ritenuto che fosse infondato il motivo d'appello inerente al merito. La corte, sul punto, dopo aver evidenziato che: - il tribunale, all'esito dell'esame di tutta la documentazione prodotta e dell'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio, i cui risultati non sono stati contestati, aveva accertato che il manufatto era stato costruito in violazione sia delle disposizioni amministrative in tema di edificazione degli edifici, sia delle norme consortili previste dagli artt. 8, 9 e 10 del regolamento in atti; - tali norme, in particolare, vietano, tra l'altro, le costruzioni civili, rustiche in muratura, legno o altro materiale, muri di cinta, chioschi, edicole, ecc., senza la richiesta di autorizzazione corredata degli allegati elencati all'art. 10 ed indirizzata al Sindaco di Sperlonga, firmata dal proprietario o dal suo legale rappresentante, e presentata in copia all'ufficio tecnico del Consorzio; - tale richiesta deve essere seguita da un provvedimento che legittimi il consorziato ad iniziare ed eseguire i lavori secondo le prescrizioni generali o particolari dell'autorizzazione; - il tribunale aveva ritenuto che, nonostante il consulente tecnico d'ufficio non avesse riscontrato la violazione delle distanze legali o di altra norma integrativa che consentisse la riduzione in pristino ai sensi degli artt. 872 c.c. e segg., il regolamento consortile attribuiva vantaggi ed oneri a ciascun fondo con caratteristiche di realità inquadrabili nello schema delle servitù: tali pattuizioni, in particolare, determinando reciproche limitazioni o vantaggi a favore o a carico delle rispettive proprietà individuali, specie in ordine alle modalità di edificazione, restringono ovvero ampliano definitivamente i poteri connessi alla proprietà, attribuendo a ciascun fondo un corrispondente vantaggio e onere che ad esso inerisce come qualitas fundi, per cui, in caso di mancata osservanza alla convenzione limitativa della edificabilità, pur quando tali pattuizioni introducano limiti di costruibilità attraverso il rinvio a corrispondenti disposizioni del regolamento edilizio comunale, il proprietario del fondo dominante può agire nei confronti del proprietario del fondo servente con l'azione di natura reale per chiedere ed ottenere, non diversamente dal proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze delle costruzioni previste dagli artt. 872 e 873 c.c., la demolizione dell'opera abusiva; - il tribunale, in definitiva, aveva affermato che, in caso di violazione del regolamento consortile, poteva trovare applicazione la sanzione della demolizione della costruzione realizzata in spregio dei limiti e delle procedure previste; ha ritenuto che l'appellante non aveva in alcun modo censurato tali argomentazioni, "che riconducono gli obblighi imposti ai consorziati dall'art. 6 del regolamento alle caratteristiche di realità inquadrabili nello schema delle servitù", cui il tribunale ha ricollegato la legittimazione del proprietario del fondo dominante, e cioè l'attrice B.L., ad agire nei confronti del proprietario del fondo servente, e cioè la convenuta V.L., con un'azione di natura reale per chiedere ed ottenere la demolizione dell'opera abusiva. In effetti, ha osservato la corte, la legittimazione del Consorzio, espressamente prevista dall'art. 6, comma 4, del regolamento, a provvedere direttamente all'esecuzione dei lavori di ripristino nel caso in cui il consorziato abbia violato le norme citate, non può precludere al singolo consorziato l'esercizio dell'azione per ottenere il provvedimento giudiziale di ripristino previsto dall'art. 1079 c.c., in tema di servitù.

La corte, quindi, ha ritenuto che l'appello dovesse essere, in definitiva, respinto, ed ha provveduto a liquidare le spese in base alla soccombenza ed ai valori medi dello scaglione di valore indeterminabile e complessità bassa di cui al D.M. n. 55 del 2014, "tenuto conto delle voci della notula in atti".

4. V.L., con ricorso notificato il 15/5/2017 (il 14 maggio 2017 è stata domenica), ha chiesto, per cinque motivi, la cassazione della sentenza della corte d'appello, dichiaratamente notificata in data 15/3/2017.

B.L. ha resistito con controricorso.

V.A., V.E., nella qualità di eredi di D.C.O., nonchè C.M.C. ed C.A., quali eredi di V.T., già erede di D.C.O., sono rimasti intimati.

La ricorrente e la controricorrente hanno depositato memorie. 5. La Corte, con ordinanza interlocutoria del 26/1/2021, ha rimesso il ricorso alla pubblica udienza.

Il Pubblico Ministero, con conclusioni depositate il 22/6/2021, ha chiesto il rigetto del ricorso.

La controricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

6.1. Con il primo motivo, la ricorrente, lamentando la motivazione apparente e/o omessa e/o insufficiente su un fatto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d'appello si è limitata a richiamare la decisione emessa dal tribunale omettendo di esaminare i punti fondamentali della controversia.

6.2. La motivazione per relationem, infatti, ha osservato la ricorrente, è consentita alla condizione che il rinvio sia operato in modo tale da rendere possibile ed agevole il controllo della motivazione, essendo necessario che dia conto delle argomentazioni delle parti e dell'identità di tali argomentazioni con quelle esaminate nella pronuncia oggetto di rinvio.

6.3. Nel caso in esame, al contrario, le doglianze che l'appellante aveva formulato nell'atto di gravame non erano identiche ai motivi della sua resistenza nel giudizio di primo grado, concretandosi, piuttosto, nella enunciazione dei vizi di motivazione della sentenza di primo grado.

6.4. La corte d'appello, invece, ha confermato la sentenza di primo grado motivando la propria decisione semplicemente condividendone la motivazione ed uniformandosi ad essa senza argomentare l'iter seguito per addivenire al proprio convincimento, specie in relazione alle censure addotte dall'appellante in sede di gravame ed al rilievo per cui, vista la natura dell'abuso, era il Consorzio e non il privato a poter intraprendere l'azione nei confronti dei contravventori.

7.1. Il motivo è infondato.

7.2. La motivazione per relationem della sentenza pronunciata in sede di gravame è, infatti, legittima tutte le volte in cui il giudice d'appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto, dovendo, piuttosto, essere cassata la sentenza d'appello allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che all'affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l'esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (Cass. n. 20883 del 2019; Cass. n. 28139 del 2018; Cass. n. 14786 del 2016).

7.3. Nel caso in esame, la corte d'appello, se, da un lato, ha effettivamente motivato il proprio convincimento riproducendo le ragioni espresse dal giudice di primo grado (così come testualmente esposte in ricorso, a p. 6), ne ha, dall'altro lato, condiviso, con proprio appezzamento, le argomentazioni: lì dove, in particolare, ha ritenuto che, in caso di violazione delle norme del regolamento consortile, la legittimazione del Consorzio non precludeva al singolo consorziato l'esercizio dell'azione volta ad ottenere dal giudice il provvedimento di ripristino ai sensi dell'art. 1079 c.c., in tal modo, peraltro, implicitamente ma inequivocamente confrontandosi con le censure svolte dall'appellante (così come esposte in ricorso, a p. 7), che ha, evidentemente, rigettato (ai fini in esame, non importa se a torto o a ragione), sul rilievo che l'inquadramento dei limiti di edificabilità posti dal regolamento consortile nello schema delle servitù, con argomentazioni non contrastate dall'appellante, escludeva la possibilità di invocare il principio secondo il quale la domanda di riduzione in pristino, con il conseguente abbattimento del manufatto, non può essere proposta per il solo fatto che la costruzione sia stata realizzata senza licenza o concessione edilizia.

8.1. Con il secondo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all'art. 12 disp. gen., all'art. 6 del regolamento consortile ed agli artt. 872, 873 e 1079 c.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d'appello, nonostante la consulenza tecnica espletata nel corso del giudizio avesse escluso la violazione delle norme sulle distanze o di altra normativa integrativa che consentisse la riduzione in pristino ai sensi degli artt. 872 c.c. e segg., ha ritenuto che la costruzione del manufatto da parte della convenuta in violazione delle norme consortili previste dagli artt. 8, 9 e 10 del regolamento del Consorzio, che prescrivono le modalità e le procedure attraverso le quali ottenere dal Comune il titolo abilitativo, vale a dire l'autorizzazione a costruire, consentisse all'attrice la proposizione della domanda di riduzione in pristino.

8.2. Così facendo, infatti, ha osservato la ricorrente, la corte d'appello, attraverso un'errata applicazione analogica delle norme previste dagli artt. 872, 873 e 1079 c.c., ha ritenuto di poter equiparare, sostanzialmente, il caso della costruzione realizzata senza alcuna autorizzazione, come quella oggetto della contestazione in esame, in quanto realizzata in violazione delle norme di cui agli artt. 8, 9 e 10 del regolamento del Consorzio, al caso della costruzione realizzata in violazione delle distanze, laddove, in realtà, il manufatto realizzato dalla convenuta non è stato costruito in violazione delle norme sulle distanze bensì senza autorizzazione edilizia e senza il rispetto delle procedure amministrative contemplate dagli artt. 8, 9 e 10 dello statuto consortile.

8.3. D'altra parte, l'art. 6 dello statuto individua in modo analitico le opere e gli obblighi cui le parti sono assoggettate al fine di procedere alla costruzione di opere all'interno di zone ricadenti nell'ambito applicativo del Consorzio, stabilendo, però, che, in caso di contravvenzioni a tali obblighi, è solo il Consorzio e non anche il singolo consorziato ad essere legittimato a richiedere la riduzione in pristino.

8.4. In ogni caso, ha concluso la ricorrente, quando la doglianza dei proprietari interessati in senso opposto alla costruzione eseguita da un vicino è fondata solo sull'assenza, come nel caso in esame, della licenza o della concessione edilizia, e cioè sulla violazione di norme non richiamate dall'art. 871 c.c., il privato non ha il diritto alla riduzione in pristino per cui la soluzione della corte d'appello e del primo giudice, che ha legittimato la richiesta di riduzione in pristino da parte dell'attrice mediante la sussunzione delle norme relative all'acquisizione del titolo abilitativo nello schema delle servitù e la qualificazione del relativo obbligo tra le qualitas fundi, appare erronea.

9.1. Con il terzo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 91 e 92 c.p.c. e al D.P.R. n. 55 del 2014, art. 42, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d'appello ha liquidato le spese di lite nella somma complessiva di Euro 9.515,00 per compensi, condannando l'appellante alla relativa refusione in favore dell'appellata, vale a dire all'importo complessivamente previsto, nei valori medi, dalla tabella 12 del D.M. n. 55 del 2014, relativamente allo scaglione da Euro 26.000 ad Euro 52.000, per le quattro fasi del giudizio.

9.2. Così facendo, però, ha osservato la ricorrente, la corte d'appello ha violato il D.M. n. 55 del 2014, art. 4, lett. b), poichè nessuna delle attività previste da tale norma per la fase istruttoria è stata effettivamente espletata nel corso del giudizio di secondo grado, con la conseguenza che la sentenza dev'essere cassata nella parte in cui la stessa ha attribuito all'appellata anche gli importi relativi alla fase istruttoria, pari, ai sensi del D.M. n. 55 cit., art. 12, ad Euro 2.900,00.

10.1. Con il quarto motivo, la ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 345, 808, 808 ter e 180 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d'appello ha ritenuto la tardività, perchè proposta per la prima volta solo nel giudizio d'appello, dell'eccezione con la quale l'appellante aveva dedotto l'esistenza della clausola per arbitrato irrituale contenuta nell'art. 17 dello statuto consortile e la conseguente devoluzione della controversia in questione alla competenza del collegio arbitrale ivi previsto.

10.2. Così facendo, però, ha osservato la ricorrente, la corte d'appello non ha considerato, innanzitutto, che la questione della proponibilità dell'azione pur in presenza della clausola compromissoria faceva parte del thema decidendum del giudizio di primo grado, in quanto dedotta dalla stessa attrice, che ne aveva escluso l'operatività in virtù della particolare gravità attribuita alla violazione delle norme statutarie e regolamentari da parte delle convenute, ed, in secondo luogo, che l'eccezione, con la quale sia dedotta l'esistenza di una clausola compromissaria per arbitrato irrituale, non riguardando una deroga alla competenza dell'autorità giudiziaria ma solo l'improponibilità della domanda, può essere fatta valere in ogni momento del giudizio secondo le regole proprie dell'eccezione di natura sostanziale e può essere, dunque, proposta per la prima volta anche in appello.

11. Con il quinto motivo, la ricorrente, lamentando l'omessa pronuncia della nullità del contratto associativo e dell'inopponibilità alla stessa del vincolo ivi stabilito, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d'appello non ha dichiarato la nullità della clausola contenuta nell'art. 4 dello statuto consortile a tenore della quale fanno parte del Consorzio i proprietari dei fondi nonchè i loro eredi o aventi causa, senza, tuttavia, considerare che la clausola in questione, lì dove prevede la successione automatica della partecipazione associativa non solo agli eredi ma anche agli aventi causa, è nulla e che, pertanto, il vincolo associativo non è opponibile agli aventi causa dei consorziati che non abbiano espresso la volontà di succedere nella partecipazione consortile del loro dante causa.

12.1. Il quarto motivo, da esaminare in via prioritaria, è infondato.

12.2. Questa Corte, in effetti, ha ripetutamente affermato il principio secondo il quale l'eccezione d'improponibilità della domanda a causa della previsione d'una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, è rilevabile solo se proposta dalla parte interessata (Cass. n. 19823 del 2020, in motiv., per cui "l'eccezione di arbitrato irrituale... non è rilevabile d'ufficio, ma dalla parte interessata, la quale, vertendosi in materia di diritti disponibili, può rinunziare ad essa, anche tacitamente ponendo in essere comportamenti incompatibili con la volontà di avvalersi del compromesso"; Cass. n. 25086 del 2017, in motiv., con riguardo all'eccezione di clausola compromissoria per arbitrato irrituale, e come tale riservata in via esclusiva alla istanza di parte"; Cass. n. 5265 del 2011, la quale ha ritenuto che "l'improponibilità della domanda, in conseguenza di compromesso per arbitrato irrituale, è rilevabile solo in presenza di eccezione della parte convenuta"; in tal senso, già Cass. n. 10086 del 1998, per cui l'eccezione di arbitrato irrituale, che non è vincolata ai limiti dell'eccezione d'incompetenza ma può essere fatta valere in ogni momento del giudizio, dev'essere sempre proposta secondo le regole proprie delle eccezioni di natura sostanziale, sicchè non è rilevabile d'ufficio ma dalla parte interessata, la quale, vertendosi in materia di diritti disponibili, può rinunziare ad essa, anche tacitamente, ponendo in essere comportamenti incompatibili con la volontà di avvalersi del compromesso; nel medesimo senso della non rilevabilità d'ufficio dell'eccezione di arbitrato irrituale, Cass. n. 870 del 2000).

12.3. Costituiscono, in effetti, eccezioni in senso stretto, rilevabili, cioè, solo ad istanza di parte e non anche d'ufficio dal giudice, quelle che consistono, al pari delle eccezioni in senso lato, nella deduzione di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto azionato in giudizio ma che, a differenza di queste ultime, il giudice può rilevare come tale solo quando un'espressa disposizione di legge richieda un'iniziativa in tal senso della parte interessata ovvero quando il relativo fatto integratore corrisponda all'esercizio di un diritto potestativo e presupponga, quindi, per essere produttivo di effetti modificativi, impeditivi o estintivi della pretesa attorea, una manifestazione di volontà del relativo titolare (cfr. Cass. n. 15591 del 2018; conf., Cass. n. 8525 del 2020; Cass. n. 20317 del 2019; Cass. SU n. 10531 del 2013).

12.4. Ed è ciò che, a ben vedere, accade nel caso dell'eccezione d'arbitrato irrituale, la quale, in effetti, si configura come la deduzione in giudizio di un fatto impeditivo del diritto azionato dall'attore (e cioè la convenzione d'arbitrato libero) costituente l'espressione, nell'ambito del processo introdotto da quest'ultimo, del diritto sostanziale a carattere potestativo che spetta al convenuto, quale parte della predetta convenzione, di determinare, per sua esclusiva scelta, che, come tale, si impone alle altre parti (che la subiscono in una situazione di soggezione), l'effetto giuridico di assoggettare la controversia tra loro ad una "determinazione contrattuale" piuttosto che al giudizio dei giudici dello Stato. Si tratta, dunque, di un'eccezione che, proprio in quanto eccezione in senso stretto, non è rilevabile d'ufficio dal giudice e non è, pertanto, deducibile in giudizio per la prima volta solo con l'atto d'appello, trattandosi, appunto, di una possibilità che la norma prevista dall'art. 345 c.p.c., comma 2, riserva soltanto alle eccezioni (in senso lato, e cioè rilevabili) anche d'ufficio (cfr. Cass. n. 8525 del 2020; Cass. n. 31638 del 2018; Cass. n. 27998 del 2018; Cass. SU n. 10531 del 2013; in senso contrario, Cass. n. 10240 del 1992; Cass. n. 6439 del 1983; Cass. n. 8399 del 1990).

13.1. Il secondo motivo è parimenti infondato.

13.2. Il ricorrente, in effetti, non si confronta con la ratio della decisione assunta: la quale, invero, lungi dal ricondurre la vicenda in esame alla violazione delle norme amministrative che integrano la disciplina in materia di distanze tra le costruzioni contenuta nell'art. 873 c.c., ha, in sostanza, ritenuto, con statuizione che la ricorrente non ha specificamente censurato se non con la mera dichiarazione del suo dissenso, che il regolamento consortile ha, in realtà, costituito reciprocamente vantaggi a favore ed oneri a carico delle proprietà individuali dei singoli consorziati, specie in ordine alle modalità di edificazione, con caratteristiche di realità inquadrabili nello schema delle servitù, e che tali pattuizioni, pertanto, pur quando introducano, come nella specie, limiti di costruibilità attraverso il rinvio alle corrispondenti disposizioni della normativa edilizia comunale, consentono, in caso di mancata osservanza, al proprietario del fondo dominante di agire nei confronti del proprietario del fondo servente con l'azione di natura reale per chiedere ed ottenere, non diversamente dal proprietario danneggiato dalla violazione della norme sulle distanze delle costruzioni previste dagli artt. 872 e 873 c.c., la demolizione dell'opera abusiva ai sensi dell'art. 1079 c.c..

13.3. Questa Corte, invero, ha avuto più volte modo di affermare che le convenzioni tra privati, con le quali si stabiliscono reciproche limitazioni o vantaggi a favore e a carico delle rispettive proprietà individuali specie in ordine alle modalità di edificabilità, restringono o ampliano definitivamente i poteri connessi alla proprietà, attribuendo a ciascun fondo un corrispondente vantaggio e onere che ad esso inerisce come qualitas fundi, ossia con caratteristiche di realità inquadrabili nello schema delle servitù, senza che siffatto carattere venga meno qualora le parti non la menzionino espressamente, e che, pertanto, nell'ipotesi, come quella in esame, di (accertata) inosservanza della convenzione (contenuta, nella specie, nel regolamento consortile) limitativa, con carattere di realità (concernendo sin da subito i fondi confinanti), dell'edificabilità, il proprietario del fondo dominante può agire nei confronti del proprietario del fondo servente con azione di natura reale per chiedere ed ottenere la demolizione dell'opera abusiva, non diversamente dal proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni previste dagli artt. 872 e 873 c.c. (cfr. Cass. n. 4770 del 1996; Cass. n. 4624 del 1984).

In effetti, "al fine di accertare se... i contraenti abbiano inteso costituire una servitù prediale a vantaggio o a carico di fondi esistenti ovvero dei costruendi edifici, è necessario far ricorso al criterio dell'attualità e meno dell'utilitas in cui si concreta il contenuto della servitù, poichè se l'utilitas presuppone la costruzione degli edifici, nel senso che, in loro mancanza, il contenuto del rapporto risulterebbe privo dell'inerenza necessaria a dare vita concreta alla servitù (come, ad esempio, nel caso di servitù di veduta, di stillicidio, di acquedotto per dotare di acqua l'erigenda costruzione), si verte nell'ipotesi contemplate dell'art. 1029 c.c., comma 2 e, pertanto, il patto costitutivo della servitù ha efficacia meramente obbligatoria, in quanto la servitù sorge soltanto con la realizzazione della costruzione, mentre, qualora il vantaggio ed il corrispondente peso siano indipendenti da tale realizzazione edificatoria in guisa da inerire direttamente ai suoli non ancora edificati con carattere di realtà - come si verifica normalmente nelle pattuizioni che, vietando di costruire ad una certa distanza dal confine, limitano, da un lato, l'edificabilità del fondo servente, restringendo i poteri di godimento e di utilizzazione inerenti al relativo diritto di proprietà, e attribuiscono, dall'altro, i corrispondenti vantaggi al contiguo fondo dominante, ancora prima e indipendentemente dalla sua avvenuta edificazione -, si verte nell'ipotesi, prevista dal primo comma del citato articolo, di servitù immediatamente costituita con carattere ed effetti reali" (Cass. n. 1267 del 1996, in motiv.; Cass. n. 8227 del 1997; Cass. n. 8885 del 2000; Cass. n. 235 del 1982; Cass. n. 5287 del 1983).

Si tratta di un concetto che questa Corte ha espresso sin dalla sentenza n. 4142 del 1976: quando, in particolare, aveva chiarito che "le pattuizioni con le quali i proprietari di più lotti vicini, compresi in una lottizzazione di aree fabbricabili, stabiliscono i criteri ai quali ciascuno dovrà conformarsi nell'esecuzione degli edifici da costruirsi, rientrano nella figura della servitù a favore o a carico di un edificio da costruire, di cui al capoverso dell'art. 1029 c.c., tale diritto ha natura reale sin dall'origine, dovendo ritenersi costituito a favore del suolo su cui l'edificio dovrà sorgere ed al quale mira precisamente ad assicurare i cospicui vantaggi derivanti da una determinata futura utilizzazione edificatoria, che, secondo le comuni regole in materia di rapporti di vicinato tra proprietari confinanti, sarebbe invece vietata".

I divieti di costruire ad una certa distanza dal confine ovvero quelli di edificare oltre certi limiti comportano, sotto questo profilo, un'immediata limitazione dell'edificabilità del fondo (servente), che si sostanzia, per un verso, nella restrizione dei poteri di godimento e di utilizzazione del medesimo e, per altro verso, in un altrettanto immediato accrescimento dell'utilitas del contiguo fondo (Cass. n. 8227 del 1997).

In effetti, le pattuizioni con le quali vengono poste a carico di un fondo ed a favore di altri limitazioni di edificabilità, restringono permanentemente i poteri connessi alla proprietà dell'area gravata e mirano ad assicurare stabilmente e correlativamente particolari utilità a vantaggio del proprietario dell'area contigua, sicchè tali pattuizioni si atteggiano, rispetto ai terreni che vi sono considerati, a permanente minorazione della loro utilizzazione da parte di chiunque ne sia o ne divenga proprietario, ed attribuiscono al fondo vicino un corrispondente vantaggio che a questo inerisce come qualitas fundi, ossia con caratteristiche di realità tali da inquadrarsi nello schema delle servitù, senza che siffatto carattere venga meno qualora le parti non parlino espressamente di servitù (Cass. n. 14580 del 2012).

Tale principio trova applicazione anche per l'ipotesi in cui pattuizioni di tale natura siano contenute nelle clausole di uno statuto consortile, onde assicurare all'intera zona particolari caratteristiche di amenità o comodità, ed abbiano introdotto, com'è accaduto nel caso di specie, i limiti di costruibilità attraverso il rinvio (diretto o indiretto, e cioè per il tramite dell'autorizzazione comunale) a corrispondenti disposizioni del regolamento edilizio comunale, atteso che tale richiamo inserisce le stesse nel rapporto convenzionale e le rende operanti nei confronti delle relative parti (cfr. Cass. n. 4399 del 1982).

13.4. I consorzi di urbanizzazione, in effetti, costituiti dai proprietari dei terreni situati in un'area destinata a insediamenti abitativi o turistici proprio per realizzare, mantenere e gestire i servizi e le attrezzature necessarie all'utilizzazione dell'intera area, possono ben avere (e di regola hanno) natura di associazioni atipiche, con aspetti sia associativi che di realità, derivanti questi ultimi dall'assunzione da parte dei consorziati di obblighi propter rem oppure dalle costituzioni di reciproche servitù.

L'interesse, comune ai proprietari di terreni situati in aree destinate a insediamenti industriali, abitativi o turistici, a disciplinare l'utilizzazione del comprensorio in vista della sua urbanizzazione, spinge, infatti, i detti proprietari a convenire particolari rapporti associativi, in base ai quali i predetti proprietari si impegnano a realizzare sui propri terreni i servizi e le attrezzature prescritte negli strumenti urbanistici, nonchè a manutenerli e a gestirli.

I consortisti, in particolare, assumono obblighi propter rem e costituiscono a carico dei terreni siti nel comprensorio (che restano tuttavia di loro proprietà) una serie di servitù reciproche (soggette a trascrizione perchè siano opponibili ai terzi), allo scopo di assicurare nel tempo il rispetto dei diritti e obblighi che ne derivano (Cass. n. 11218 del 1992).

Ne consegue che, in caso d'inosservanza della pattuita limitazione di inedificabilità - come quella contenuta nello statuto del Consorzio nel cui territorio insistono i fondi di proprietà delle parti (v. le clausole contenute negli artt. 8, 9 e 10 dello statuto così come trascritte in ricorso, p. 10) - il (singolo) proprietario del fondo dominante può direttamente agire nei confronti del proprietario del fondo servente con azione di natura reale (confessoria servitutis ex art. 1079 c.c.) per chiedere ed ottenere la rimessione in pristino ed il risarcimento del danno, non diversamente dal proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni ai sensi degli artt. 872 e 873 c.c. (Cass. n. 11948 del 1993).

14. Il quinto motivo è inammissibile. La ricorrente, in effetti, non illustra, con la dovuta specificità, per quali ragioni la questione posta (della quale la sentenza impugnata non tratta in alcun modo) la riguardi (e sia, quindi, rilevante ai fini della decisione sull'impugnazione avverso la stessa), in quanto, appunto, in ipotesi, avente causa di consorziato senza aver, a sua volta, aderito al Consorzio, con la conseguente inopponibilità nei suoi confronti delle clausole consortili.

15. Il terzo motivo, infine, è infondato. La determinazione degli onorari di avvocato costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, se contenuto tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità, se non quando l'interessato specifichi le singole voci della tariffa che assume essere state violate (Cass. n. 7527 del 2002). Il superamento, da parte del giudice, dei limiti minimi e massimi della tariffa forense nella liquidazione delle spese giudiziali configura, infatti, un vizio in iudicando e, pertanto, per l'ammissibilità della censura, è necessario che nel ricorso per cassazione siano specificati i singoli conteggi contestati e le corrispondenti voci della tariffa professionale violate, al fine di consentire alla Corte il controllo di legittimità, senza dover espletare un'ammissibile indagine sugli atti di causa (Cass. n. 20289 del 2015): ciò che, nel caso di specie, non risulta accaduto.

16. Il ricorso, per l'infondatezza o l'inammissibilità di tutti i suoi motivi, dev'essere, quindi, respinto.

17. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

18. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 5.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 7 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2021


Avv. Francesco Botta

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